Hunger
Con il film dell’inglese Steve McQueen s’inaugura, oltre la sezione “Un Certain Regard”, anche il festival delle biografie, in qualche modo. Se nei prossimi giorni passeranno il documentario su Maradona di Kusturica e su Mike Tyson dello statunitense James Toback, in piu’, il Che di Soderbergh, oggi e’ partita la saga con laCon il film dell’inglese Steve McQueen s’inaugura, oltre la sezione “Un Certain Regard”, anche il festival delle biografie, in qualche modo. Se nei prossimi giorni passeranno il documentario su Maradona di Kusturica e su Mike Tyson dello statunitense James Toback, in piu’, il Che di Soderbergh, oggi e’ partita la saga con la storia di Bobby Sands, l’attivista irlandese degli anni ottanta, martire lasciatosi morire in galera per uno sciopero della fame durato 66 giorni, non prima di aver subito le piu’ crudeli torture da parte dei secondini inglesi. Il trentanovenne Steve McQeen e’ al suo primo lungometraggio, ed e’ da considerare tra i piu’ noti artisti contemporanei (e’ anche scultore e fotografo) per l'uso sofisticato del linguaggio cinematografico con riferimento diretto al cinema-verite', in particolare a Jean Rouch. McQueen ha sviluppato una narrativa filmica che inevitabilmente lo ha portato ad allontanarsi dal cinema classico e ad adottare un approccio piu' libero che fa della casualità e dell'aleatorietà i suoi punti di forza. In questo contesto l'artista ha adottato alcune tecniche che sono diventate tipiche del suo operare: l'uso della camera tenuta a mano durante la ripresa, la trasgressione dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio di chi osserva e quello del film, e soprattutto l'interruzione della continuità del racconto per cui le sequenze non si succedono l'una dopo l'altra, bensi' fanno parte di blocchi narrativi discontinui. In questa opera cruda e violenta pero’ l’autore sembra frenare il suo impulso creativo, dimostrando anche un senso dell’equilibrio non comune ai giovani autori. Episodico nella struttura, il suo procedere non segue, anche in questa opera, un'azione lineare ma ancora lo sguardo, seguendo un percorso linguistico in cui si compenetrano immagini e memoria e il cui scopo e' trasformare la nozione comune del reale. Ognuno diviene sensibile al massimo grado verso se stesso, il proprio corpo e la propria respirazione. Questo e’ quello che proviamo negli ultimi atti dell’esistenza di Bobby Sands. Bisogna perdere completamente il controllo. In questo consiste l'improvvisazione. È caos controllato. E se la dimensione temporale in questo film e' determinata dalla memoria che, sollecitata, si muove in diverse direzioni, anche i luoghi dove si svolgono le azioni scaturiscono dalla casualità e dalla capacità di improvvisazione. Un mondo che si spinge all’esplorazione dei limiti fisici, cercando di superarli attraverso un’arte multimediale che condensa a tratti, impercettibilmente cinema, videoinstallazione, scultura, fotografia, disegno. Il concetto di creatività interagisce tra i labirinti dello specialismo e dell’estremismo espressivo contemporaneo. Veramente un’opera notevole: quasi azzerate le parole, fino al faccia a faccia tra Bobby ed un prete, parlano le immagini, la narrazione che evoca il tempo reale e l’opposizione gravitazionale della metafora cinematografica. Questo cinema è una sorta di fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare: un tentativo di rafforzare l’energia creativa senza permettere alla propria pratica di assumere una forma concreta e fastidiosamente estetizzante storia di Bobby Sands, l’attivista irlandese degli anni ottanta, martire lasciatosi morire in galera per uno sciopero della fame durato 66 giorni, non prima di aver subito le piu’ crudeli torture da parte dei secondini inglesi. Il trentanovenne Steve McQeen e’ al suo primo lungometraggio, ed e’ da considerare tra i piu’ noti artisti contemporanei (e’ anche scultore e fotografo) per l'uso sofisticato del linguaggio cinematografico con riferimento diretto al cinema-verite', in particolare a Jean Rouch. McQueen ha sviluppato una narrativa filmica che inevitabilmente lo ha portato ad allontanarsi dal cinema classico e ad adottare un approccio piu' libero che fa della casualità e dell'aleatorietà i suoi punti di forza. In questo contesto l'artista ha adottato alcune tecniche che sono diventate tipiche del suo operare: l'uso della camera tenuta a mano durante la ripresa, la trasgressione dei confini tra immaginazione e realtà, tra lo spazio di chi osserva e quello del film, e soprattutto l'interruzione della continuità del racconto per cui le sequenze non si succedono l'una dopo l'altra, bensi' fanno parte di blocchi narrativi discontinui. In questa opera cruda e violenta pero’ l’autore sembra frenare il suo impulso creativo, dimostrando anche un senso dell’equilibrio non comune ai giovani autori. Episodico nella struttura, il suo procedere non segue, anche in questa opera, un'azione lineare ma ancora lo sguardo, seguendo un percorso linguistico in cui si compenetrano immagini e memoria e il cui scopo e' trasformare la nozione comune del reale. Ognuno diviene sensibile al massimo grado verso se stesso, il proprio corpo e la propria respirazione. Questo e’ quello che proviamo negli ultimi atti dell’esistenza di Bobby Sands. Bisogna perdere completamente il controllo. In questo consiste l'improvvisazione. È caos controllato. E se la dimensione temporale in questo film e' determinata dalla memoria che, sollecitata, si muove in diverse direzioni, anche i luoghi dove si svolgono le azioni scaturiscono dalla casualità e dalla capacità di improvvisazione. Un mondo che si spinge all’esplorazione dei limiti fisici, cercando di superarli attraverso un’arte multimediale che condensa a tratti, impercettibilmente cinema, videoinstallazione, scultura, fotografia, disegno. Il concetto di creatività interagisce tra i labirinti dello specialismo e dell’estremismo espressivo contemporaneo. Veramente un’opera notevole: quasi azzerate le parole, fino al faccia a faccia tra Bobby ed un prete, parlano le immagini, la narrazione che evoca il tempo reale e l’opposizione gravitazionale della metafora cinematografica. Questo cinema è una sorta di fecondazione trasversale tra il desiderio di creare e la fatica di continuare a creare: un tentativo di rafforzare l’energia creativa senza permettere alla propria pratica di assumere una forma concreta e fastidiosamente estetizzante.
(un ringrazimento a sentieri selvaggi)